martedì 25 ottobre 2011

This must be the place, se vi pare

Le Rockstar non crescono mai. Lo sanno bene tutti. O forse è quello che ci fanno credere. Le rockstar sono strane, indossano abiti a-normali e sono pieni di tatuaggi, usano il rossetto anche se sono uomini. E sono riccamente depressi. Uno sguardo tipicamente italiano, quello del film uscito dieci giorni fa "This must be the place"di Paolo Sorrentino, nel delineare una figura epica, ispirata (e referenziata) da Robert Smith leader dei Cure.

Tipicamente italiano, per l'ottima fotografia e per e per la descrizione sociopolitica dei personaggi che vedono lo schermo e vivono il film. E anche per i pre-giudizi, visti attraverso gli occhi di chi osserva Cheyenne, questo il nome del Robert cinematografico. Nella realtà americana, nessuno si fermerebbe mai a guardare uno strano personaggio dark con il rossetto aggirarsi nel pressi di un quartiere munito di carrellino per la spesa. In Italia sì.

In USA, al bancone di un pub, nessuno scruterebbe un avanzo di galera ricoperto di tatuaggi. In Italia sarebbe esattamente un avanzo di galera. Ma la dolcezza di Smith, anche qui il vero nome di Cheyenne sullo schermo, traspare attraverso i suoi vestiti neri, i suoi capelli scompigliati e i suoi occhi azzurri. Occhi di uno Sean Penn da oscar. Adorabile la prima parte del film, un pò rallentata la seconda. Ma sicuramente un film da vedere, già campione di incassi, anche nel piccolo cinema Italia di Cosenza, altrimenti semi-vuoto un mercoledì qualunque. Fosse solo per il lancio pubblicitario dei giorni scorsi o per l'accattivante e provocatoria locandina. Ricordo mio padre, che vistro il trailer in tv mi domanda: "Ma questo è un trans?" - E la mia risposta "No padre. Questo è un pezzo di musica vivente".

Cristina Mauceri

martedì 11 ottobre 2011

L’importanza di Essere Steve Jobs

“È meglio vivere nel mistero che essere schiacciati dalla realtà” (H.Miller)

Il 4 Novembre 2007 mi trovavo a Cork, nella sede europea Apple sita in zona HollyHill. Un posto apparentemente anonimo. Ma la storia della tecnologia europea passava di lì quel giorno. Ebbi la fortuna, di prendere parte al lancio dell’ IPhone, il 9 Novembre. Nella palestra dello stabile in videoconferenza da Cupertino, lui, Steve Jobs, agitava gli animi come un generale cibernetico. Non ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, ma ho lavorato con persone che venivano dalla sede californiana, il quartier generale della Apple.

Steve Jobs è stato un Capitano Achab contemporaneo. Un uomo tormentato e passionale. Un vero benefattore dell’umanità. Sorta di Prometeo 2.0 – rappresentando almeno per una parte di noi geek, una sorta di personaggio leggendario. A lui si attribuisce l’idea di creare un interfaccia grafico per il computer, il perfezionamento di uno strumento come il mouse e molte altre meraviglie che gli oscuri cervelli dell’IBM non seppero immaginare.

Steve Jobs ha ridefinito il senso del personal computer, ha spostato l’attenzione mondiale su di se, tra fallimenti (pochi) e clamorose vittorie personali. La sua storia è un po’ la storia della rivoluzione tecnologica. C’è un bel film che parla della scalata Apple, si intitola I pirati di Silicon Valley, che mostra un ritratto lucido e distaccato di Jobs. Le sue contraddizioni, le fisime, i tormenti, ma anche il Genio.

Chi più di lui può essere considerato un genio contemporaneo? Ossessionato dal suo personaggio e dalla sua creatura che in qualche modo deve averlo sbranato dall’interno. La battaglia contro la Malattia Mortale di Jobs, ha avuto un ché di metafisico e di ancestrale, l’uomo incatenato che combatte per la propria sopravvivenza e che non può vincere.

Il mondo oggi ricorda la sua grandezza. Alcuni lo venerano, altri lo criticano considerandolo una specie di Mago di Oz. La verità sarà come sempre nel mezzo. Ma Jobs con la sua visione di “uomo oltre” ci ha condotti in un nuovo universo fatto di pixel e di comunicazione inarrestabile, come un battito di colibrì nella tempesta. La sua filosofia Think Different è forse tra le più valide k-words attualmente in circolazione.

Steve Jobs, probabilmente ci ha reso partecipi di un mondo che non esiste, ne mai esisterà. Le sue parole risuonano oggi come un riverbero whitmaniano e un monito a rendere importante la propria esistenza. Tutto il resto è becero nichilismo!

“La morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. Ricordarsi che si muore presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per prendere le grandi scelte della vita. Siete già nudi. Non c’è ragione per non seguire il vostro cuore” (Steve Jobs)

lunedì 10 ottobre 2011

La pelle che abito: il nuovo film di Pedro Almodovar

Il gusto estetico di un maestro del cinema come Pedro Almodovar la puntale professionalità di una star come Antonio Banderas, buona recitazione e debito di riconoscenza saldato col suo mentore-talent scout. Una storia bislacca e “libera” a mezza strada tra Burroughs, H.G Wells e Mary Shelley.

Trama

Il chirurgo plastico R. Ledgard perde la moglie in seguito ad un grave incidente, che l'aveva orribilmente trasfigurata. Dopodichè il suo impegno di medico demiurgo si fa ossessione per costruire una pelle sostitutiva, più resistente di quella umana mutando il dna di pelle suina. il risultato è ottimale e Robert ha avuto bisogno di una cavia e non ha esitato a rapire un giovane che secondo lui gli aveva fatto un grave torto.

E' un film con un impianto narrativo a prova di bomba.

I quadri di un provocatore iberico, amico di Almodovar come Guillermo Perez Villalta esaltano nei momenti più statici la pellicola. La sua forza sta soprattutto in un cast tecnico e artistico consapevole che qui, su questo set si fa la Storia.

Elena Anaya, Marisa Paredes, Jan Cornet, Roberto Álamo attori superlativi (tutti) e ben ispirati contribuiscono alla buona riuscita del lavoro. Pedro Almodovar, autore geniale e anticonformista si confronta col post moderno e con una certa fantascienza e filosofia della nuova carne cronenberghiana e ballardiana. Lo fa attraverso questo Melò 2.0 con la classe e la disinvoltura di chi vuole descrivere un girone dantesco. La narrazione ellittica ricorda il David Lynch ispirato a Blake e Francis Bacon. Nei quadri di Villalta c’è una grande ricerca che spazia da De Chirico a Dalì fino a Botticelli.

Il tema è sentito: la chirurgia estetica, cambio dell'identità sessuale. Almodovar con consapevolezza si schiera dalla parte della natura, anatomica, spirituale. Lo fa rivendicando, (lui meglio di chiunque altro) la diversità come principio etico e morale. Sulle prime potrebbe sembrare un'opera fredda, ma anche malata e sadica: ha il coraggio di prendere posizione e di schierarsi, ancora una volta, dalla parte della libertà. Un inno alla non appartenenza e all'estraneità corporale.

Elegante. Perfetto. Coraggioso. Un'opera sentita e deformata che si farà meglio apprezzare nel tempo.

Voto: 9